L’autolesionismo come arte

Tra gli artisti di body art la francese Gina Pane si distingue per le sue opere contenenti autolesionismo. In particolare Psyche, una performance di 27 minuti e 32 secondi, di cui vi è una serie di fotografie, in cui l’artista si pratica con le lamette dei tagli a forma di croce intorno all’ombelico e appena sotto le sopracciglia. Nelle foto è ben visibile il sangue, simbolo di dolore, l’esperienza umana maggiormente percepibile secondo Pane, resa in maniera molto diretta tramite queste ferite, che lasceranno cicatrici, definite dall’arista come la “memoria del corpo”. Inoltre, per rendere l’esperienza più intensamente, Pane crea un contrasto indossando vestiti bianchi. L’artista afferma che “il corpo è occupato e formato dalla società” per questo bisogna scriverci sopra e contrastare il ruolo passivo della donna in una società maschilista.

Arte: espressione di sé o della società?

Sappiamo tutti quanto la percezione dell’arte sia personale. Nella storia la maggior parte delle opere più famose sono il frutto di un incarico dato da terzi, sebbene racchiudano sempre un po’ di anima dell’artista. Sono opere rilevanti perché riflettono la società storica con le sue paure, superstizioni, tradizioni ed estetica. Cosa dire delle opere in cui l’artista vuole riflettere primariamente la propria essenza? Sicuramente non saranno comprensibili del tutto allo spettatore, forse riveleranno ombre nascoste, ma se non rendono un concetto che riguardi l’universalità, possono essere definite davvero arte? E se lo sono, in una società narcisistica come la nostra, possiamo evitare che queste cadano nell’oblio? Che l’anima dell’artista non sia stata lì imprigionata invano, ma che possa anch’essa insegnarci qualcosa, forse addirittura comprenderci? In un mondo in cui l’esplorazione dell’altro è limitata all’aspetto superficiale, non facciamoci ingannare dall’aspetto esteriore dell’arte. Le sue meraviglie racchiudono sempre significati profondi, lo percepiamo solo guardandole. Se così non fosse, non sceglieremmo di contemplare una determinata opera a lungo, ma una varrebbe l’altra. La nostra sensibilità invece sceglie quale prediligere, toccando delicatamente il suo significato intrinseco, ma senza aver mai bisogno di strapparlo. Infatti, il valore nascosto nell’opera può comprenderci, completare un nostro stato d’animo, ma non potrà mai caratterizzare noi stessi totalmente nella nostra unicità. Solo una nostra opera potrebbe, ma non tutti abbiamo il dono di tradurre in proiezione esterna la nostra interiorità, o il coraggio di renderci vulnerabili facendoci sfiorare dall’altro. Allora, ecco che una stessa opera ha per noi un valore diverso dalla società. Noi la valutiamo in base all’emozione, loro in questo mondo contemporaneo spesso solo in base al prezzo e all’autore. Preserviamo il nostro spirito critico ed essenziale a discapito di opere sterili, mantenute in vita solo da valori materiali e non intellettuali ed emotivi.

Gli aborigeni percorrono la via dei sogni

È risaputo che nella storia umana le popolazioni indigene primitive si sono ritrovate svantaggiate, poiché impreparate all’arrivo dei coloni europei. È quanto è successo anche in Australia: terra inizialmente sottovalutata, considerata troppo inospitale, appena ci si è accorti delle miniere d’oro e di qualche regione più fertile, gli europei (in particolare gli inglesi) non hanno esitato a distruggere la splendida civiltà locale, per poi provare a conoscerla e preservarla quando ormai era troppo tardi. Nel caso degli aborigeni australiani lo sfruttamento del territorio e il suo stravolgimento hanno avuto conseguenze ben più gravi del semplice ritrovarsi relegati nelle aree più ostili e aride del Australia. Infatti, vi siete mai chiesti come facciano ad ambientarsi in un infinito deserto rosso, in cui tutto a prima vista a noi turisti sembra tutto uguale? Ebbene, la soluzione è originale e meravigliosa al tempo stesso. Gli aborigeni hanno una suddivisione in clan e tribù molto complessa (clicca qui per saperne di più), ognuna delle quali occupa una certa area e di solito ha una sua lingua. Per ritrovarsi, ognuna di queste famiglie canta una canzone. Una canzone atavica, trasmessa da anziani a discendenti, che indirizza l’uomo attraverso una successione di punti di riferimento naturali, presenti da secoli. Si parla di via dei sogni, una via ereditaria, un testo poetico sia nella forma che nella tradizione che rappresenta. Si cantano rocce, sassi, alberi, piante, pozzi d’acqua, orme di animali, monti… ed è così che i cambiamenti artificiali distruggono a poco a poco il loro mondo, frantumano il creato decantato dalla notte dei tempi, cancellano la memoria degli avi, i giovani si ritrovano con rituali indegnamente interrotti  e l’aborigeno è trascinato nel Tempo del Sogno Alcoolico, dominato dai demoni che ricongiungono le lacune nelle canzoni, che si riflettono inevitabilmente nell’anima.