Il vero valore dell’arte

Siamo così presi dallo studiare il passato che spesso ci dimentichiamo di capire il presente. In aula, se siamo fortunati, ci vengono illustrate tutte le correnti artistiche dalle pitture rupestri fino più o meno ai movimenti del ‘900 o poco più. È grazie allo studio del loro contesto e anche alla loro bellezza che possiamo comprenderne il valore, sentirle un po’ nostre, come affetti personali vulnerabili e saggi, che hanno superato tante insidie, perfino le due guerre mondiali. Sono le loro storie e le emozioni che suscitano a creare questo senso di appartenenza e una confidenza tale da farci esclamare in un museo, indicandole, il loro nome o quello dell’artista, accompagnati dallo stesso piacere di un amico ritrovato a distanza di tempo. È vero, alcune opere colpiscono più di altre, ma a lungo ho provato a spiegarmi perché invece le opere d’arte contemporanea siano state le uniche a lasciarmi indifferente, priva di curiosità. Eppure, necessariamente devono esserci sviluppi, innovazione, altrimenti si vivrebbe nel passato e la riproduzione attuale di opere precedenti non avrebbe senso, poiché, in quanto decontestualizzate, risulterebbero delle brutte copie, mere imitazioni.

Dopo qualche riflessione, ho ritenuto che forse fossi io a non capirle o a non volerle capire: esteticamente rispecchiano molto, ma molto raramente i miei gusti e sembrano opere che chiunque potrebbe riprodurre, messe lì solo per creare scandalo, sentirsi trasgressivi e innovatori, senza arricchire lo spirito dello spettatore. Si tratta di opere non comprensibili a primo impatto, forse solo intuitivamente dopo qualche ragionamento spesso aiutato dal titolo. Il titolo ci fa vedere ciò che sembra non esserci, ci porta da soli a giustificare l’opera. Mi sembra un tratto distintivo di questo periodo artistico, soprattutto per noi che veniamo da una lunga tradizione iconografica, in cui era fondamentale che l’arte fosse comprensibile subito a tutti, usata per educare e creare meraviglia, non disgusto. Dunque, ho provato ad informarmi, a fare ricerche, a vedere anche io ciò che non c’era. Ecco la chiave: l’arte contemporanea è più nel concetto che nella materialità. Necessita di spiegazioni “filosofiche” e spesso è solo ideata dall’artista, che si avvale di aiutanti (ma questo è accaduto anche per importanti opere antiche).

Credo che la mia valutazione negativa sia dovuta ad una sorta d’istinto, per cui nell’opera contemporanea non vedo arte, non mi convincono i pensieri filosofici (che non trovo particolarmente innovativi o rivelatori), ma percepisco solo che si tratti di un’opera costosa, puramente materiale, a cui sia stato aggiunto un significato per poterla definire “arte”. Con questo non intendo che sia dovuto all’artista in sé, ma piuttosto all’ambiente in cui è costretto ad operare, in cui raramente i soldi non sono il motivo principale per cui ci si occupa d’arte; in cui spesso viene richiesto all’artista di operare in un certo modo, preoccupandosi del guadagno e non del suo talento.

Molte opere vengono acquistate non perché piacciano, ma perché, essendo state pagate a peso d’oro, elevano lo status sociale e sono un investimento. Sembrerebbe terminata l’epoca del valore spirituale ed estetico dell’opera, in cui la produzione era determinata da scopi comuni, estesi al grande pubblico, in cui quando si voleva mostrare il proprio status non si ricadeva in una triste mercificazione dell’arte finché questa non cada nell’oblio, poiché ritenuta solo di valore economico.

Ovviamente con questo articolo non intendo fare di tutta l’erba un fascio: ognuno ha i suoi gusti in fatto di arte e io sono la prima ad amare De Chirico, Dalì e Klimt(?). Piuttosto vorrei far ragionare su quanto il valore economico possa intaccare quello artistico, quanto la genuinità delle opere possa essere ostacolata da questo. È bellissimo che ognuno abbia il proprio modo di esprimersi: significa regalare anche un po’ di sé stessi alla società e ciò non può avere prezzo. Infatti, tutte queste opere potrebbero ricoprire un ruolo importante per la nostra esistenza e l’esigenza di comprendere noi e il mondo, soprattutto se ammirate dopo averle comprese ed analizzate con cognizione e per curiosità, non per giustificare il loro costo.

Merda d’artista (1961)

È proprio questo il titolo dell’opera di Piero Manzoni, molto nota per la sua originalità e lo stupore che suscita. Ebbene, come possono degli escrementi in scatola essere non solo considerati arte, ma anche conservati in diversi musei del mondo, tra cui il Tate Modern di Londra? La risposta è proprio davanti a noi e insita nella nostra società: qualsiasi cosa ormai può essere considerata arte, basta che vi sia la firma dell’artista, che qui ironicamente aggiunge anche il numero progressivo di serie da 1 a 90, l’anno, il peso e l’entità del contenuto e come conservarlo al meglio. Si tratta di una provocazione per denunciare la mercificazione dell’arte, a cui basta una sola firma che attesti l’originalità dell’opera e quindi il valore. Sempre nel 1961, Manzoni ha riaffrontato il concetto con “Opere d’arte viventi”, ossia due modelle nude su cui ha posto la sua firma. Così il corpo, sebbene sia materia viva, viene ridotto a semplice oggetto grazie alla firma a cui si riduce l’atto artistico.