L’Annunciazione come poetica dei sentimenti

Nonostante sia un episodio tradizionale, l’Annunciazione di Leonardo ha un fascino tutto particolare. Innanzitutto, siamo immersi nella natura: una natura rigogliosa, che ricorda quella primaverile, con il prato cosparso di fiori e gli alberi verdeggianti.

A destra Maria e a sinistra l’Angelo. Appaiono fisicamente distanti (il quadro è lungo due metri), ma sorprendentemente vicini emotivamente. Basta uno sguardo per percepire sia l’incontro che il successivo dialogo. Eppure sono due figure ferme, imprigionate nella tela. Come è possibile? La risposta va ricercata nella gestualità dei soggetti, è proprio questo attento studio che ci permette di parlare di “poetica dei sentimenti” di Leonardo da Vinci. Osservando la Vergine, l’attenzione cade immediatamente sulle sue mani: una intenta a sfogliare le pagine di un libro, l’altra alzata, rivelandoci lo stupore nel vedere un angelo appena atterrato nel suo giardino. A raccontarcelo sono le sue ali: Leonardo studiò a lungo il volo degli uccelli, ed è sorprendente come una figura vestita pesantemente possa sembrare così leggera. La mano dell’Angelo è intenta in una benedizione e i suoi occhi sono rivolti a Maria, il cui volto, però, non è stupito come il suo corpo, ma rivela un’attenta interlocutrice. 

Tutti questi elementi vengono definiti da Leonardo come “moti dell’animo”. Si tratta del carattere e delle sue espressioni fisiche e facciali insieme, che riflettono anche i sentimenti e i pensieri del soggetto, rivelati dai più sottili particolari. Ne risulta un’indagine psicologica, già esistente fin dai tempi antichi, in cui però troviamo macrocategorie di soggetti di cui si evidenzia un particolare tratto caratteriale. Nel caso di Leonardo, il soggetto assomiglia ad altri, ma è sempre unico nel suo genere, esattamente come questo Angelo e Maria, che per questo si distinguono dalle altre annunciazioni.

In realtà, un altro elemento concorre alla distinzione di questo dipinto: è l’ambientazione. L’episodio infatti ha luogo all’aperto, non più dentro la modesta casa di Maria. Inoltre, è un giardino molto curato, da persone facoltose, come vediamo anche con il leggio e il mobile bianco finemente decorati e antichi. La figura di Maria non stona con tale lusso: anche lei sembra aristocratica, con le sue belle vesti, l’acconciatura e la lettura come passatempo. Questa scelta stilistica riflette il tempo in cui il quadro fu realizzato, è l’attualizzazione del sacro, ancora fortemente sentito dopo 1475 anni.

Per quel che concerne il presente, penso che sia il paesaggio, in particolare il cielo e l’orizzonte a farci sentire coinvolti nel dipinto. A differenza dell’architettura e dei costumi, una simile bellezza naturale non ha tempo. Ancora oggi, lontani dal caos cittadino, possiamo trovare luoghi dall’orizzonte così aperto, pronto ad abbracciare noi e il nostro animo con il suo senso di pace eterno.

Merda d’artista (1961)

È proprio questo il titolo dell’opera di Piero Manzoni, molto nota per la sua originalità e lo stupore che suscita. Ebbene, come possono degli escrementi in scatola essere non solo considerati arte, ma anche conservati in diversi musei del mondo, tra cui il Tate Modern di Londra? La risposta è proprio davanti a noi e insita nella nostra società: qualsiasi cosa ormai può essere considerata arte, basta che vi sia la firma dell’artista, che qui ironicamente aggiunge anche il numero progressivo di serie da 1 a 90, l’anno, il peso e l’entità del contenuto e come conservarlo al meglio. Si tratta di una provocazione per denunciare la mercificazione dell’arte, a cui basta una sola firma che attesti l’originalità dell’opera e quindi il valore. Sempre nel 1961, Manzoni ha riaffrontato il concetto con “Opere d’arte viventi”, ossia due modelle nude su cui ha posto la sua firma. Così il corpo, sebbene sia materia viva, viene ridotto a semplice oggetto grazie alla firma a cui si riduce l’atto artistico.

Una vista su emozioni sublimi

Siamo tutti di passaggio in questo mondo. Nasciamo senza uno scopo, viviamo senza comprendere il grande mistero della vita. Abbiamo infinite possibilità, ma possiamo scegliere fino ad un certo punto: il mondo è imprevedibile, le azioni altrui talvolta inspiegabili e ci ritroviamo incastrati in una serie di meccanismi fatti di cause ed effetti, nel continuo sforzo o desiderio di cambiare qualcosa della nostra esistenza, all’apparenza infinita, ma che sappiamo, più o meno consapevolmente, con una data di scadenza. Una serie di concetti complessi, su cui discutere a lungo, per cui ognuno ha la sua visione corredata da migliaia di sfumature. Forse saperle mettere insieme è alla base della grandezza del “Viandante sul mare di nebbia” di Friedrich, un’opera che precede il suo titolo e il nome dell’artista, in cui difficilmente non ci si può rispecchiare. Osserviamo questo uomo di spalle dall’identità sconosciuta e ci chiediamo perché sia da solo e così in alto su una vetta rocciosa. In realtà già ci troviamo tutti lì, ogni giorno, specialmente quando ci fermiamo a riflettere. L’uomo rappresenta l’umanità intera e la nebbia la vita ancora da scoprire e priva di istruzioni certe. Indica la possibilità di scelta e la responsabilità che ne deriva, i traguardi che ci prefissiamo e che forse non raggiungeremo nel modo in cui vogliamo e i piani che andranno sicuramente in fumo. Indica la confusione, ma anche la grandezza dell’animo umano, qui eroico nell’affrontare la vita, e che può scegliere di indagare in profondità, di avere una volontà propria. Un singolo individuo indica anche che solo noi siamo artefici della nostra vita e siamo assolutamente unici: infatti le vie sono infinite, ma bisogna stare attenti: siamo ospiti della natura, ed è stata lei a plasmarci così come siamo. Adesso tocca a noi comprendere quale ruolo ricoprire, ma non scordiamoci di ammirare e vivere questa visione sublime della nebbia sull’orizzonte senza fine.

Perché Schopenhauer non è pessimista

Nei programmi di filosofia c’è sempre un filosofo che riesce a distinguersi più degli altri. È Schopenhauer, che con la sua esposizione schietta sull’esistenza umana e le relazioni che la legano a questo mondo, non si preoccupa affatto dello scandalo suscitato nel lettore. Ricordo ancora il grande rifiuto con cui venne accolto dai miei compagni, e dallo stesso professore, poiché è inammissibile pensare di vivere in funzione della sola volontà che governa il mondo, di condurre un’esistenza che oscilla come un pendolo tra la noia e il dolore. Di Schopenhauer ho letto tre libri: “Il mondo come volontà e rappresentazione”, “L’arte di ottenere rispetto” e “L’arte di ottenere ragione”. In ogni caso, il suo modo di pensare non può essere ridotto a queste frasi, banalizzandolo, come il pensiero di un qualsiasi soggetto depresso. Nella sua visione del mondo c’è molto di più. Era più avanti di tutti i suoi contemporanei e forse anche dei nostri. Leggerlo mi ha aperto il mondo, ho sentito il contatto con una mente a dir poco geniale. Anche perché se così non fosse, a partire dal capitolo 36 del terzo libro, non sarebbe riuscito a riportare a parole le sensazioni che derivano dall’armonia, dalla bellezza, a esplicitare stati d’animo così complicati da spiegare, che ci sembrano solo nostri. Mi sono sentita capita, finalmente qualcuno è riuscito a dare ordine al mio travolgimento interiore quando ammiro e assorbo la bellezza e la natura estasiata. Un pessimista non sarebbe mai in grado di descrivere tutto ciò, poiché semplicemente non potrebbe aver mai provato simili elevazioni nella propria esistenza, essendo oscurato dalla tristezza e dalla autocommiserazione che porta inevitabilmente alla considerazione del mondo come tutto incentrato nel proprio individuo, impedendo una connessione così radicata e sensibile con l’esterno, fino a fondercisi e cogliere l’armonia intrinseca di tutto ciò che è la natura, di tutto ciò che è volontà. Comprendendo, così, che in noi non risiedono i problemi del mondo, poiché ci sono ricordati da stati d’animo fuggevoli, che possiamo dominare, staccandoci dal nostro individualismo. Dire che la nostra esistenza è innanzitutto dolore, è la verità. Dire la verità non significa essere pessimisti, ma realisti. E sono stata contenta (e sinceramente sorpresa) di aver trovato lo stesso parere nella prefazione al mio libro de “Il mondo come volontà e rappresentazione”. In ogni caso, se fosse stato considerato un ottimista, nessuno avrebbe rifiutato il suo punto di vista. Probabilmente alla realtà preferiamo le bugie che danno speranza, e preferiamo anche non documentarci e assorbire passivamente pensieri così fondamentali per la nostra consapevolezza in quanto esseri umani, facendocene un’idea completamente sbagliata. Infatti, se aveste letto Schopenhauer, non lo definireste così. Lo ammirereste anche voi, se poteste rispecchiarvi nelle sue descrizioni e sforzarvi di capirle. Sapere come funziona il mondo può arrecare molti vantaggi. Ammettere che esista il dolore non toglie niente alla felicità, anzi, se non esistesse, non proveremmo neanche quella che abbiamo. Come se non esistesse la luce, non potrebbe esistere neanche l’ombra. Ammettere che siamo annoiati non toglie niente al nostro divertimento, anzi, abbiamo molte occasioni per divertirci, per stare bene, ma la maggior parte vengono sprecate, soprattutto per pigrizia e per l’irrefrenabile voglia di lamentarsi per qualsiasi cosa. Schopenhauer non si lamenta del mondo. Schopenhauer a differenza di quasi tutti noi, si limita ad una descrizione onesta di ciò che vede e propone delle soluzioni che l’uomo può decidere di adottare o meno. Se invece di lamentarci provassimo a farlo anche noi, forse troveremmo altre vie, sicuramente vivremmo meglio. Ma la verità è che guardando in noi stessi scorgiamo pensieri ben peggiori dei suoi, soprattutto gravi incertezze e ottusità. Questi sono i veri pessimisti, coloro che lamentandosi emanano energie negative, invece di sforzarsi ad aprire gli occhi per prendere atto della propria condizione e trovare l’armonia con il flusso della realtà spazio-tempo.